Il cielo è azzurro; di quegli azzurri che stanno a significare che qualcosa di magico sta per accadere. Sdraiato sul prato, col viso in su, estasiato ad ammirare quel cielo, ti rendi conto della sua immensità, che vorresti “bere” tutta in un unico sorso, tanto da rimanere senza fiato… Quel cielo bambino è di un’estate degli anni ’70. Nella mia mente i pensieri girano come una giostra che non riesci, non puoi e non vuoi fermare; corri, salti, ti senti libero. La libertà ti serve per continuare a essere un ragazzino che sta diventando grande e che non ha, ancora, la consapevolezza della vita. Sembra un pomeriggio come tanti, il mare, gli amici e i giochi. Ripongo i pastelli nel mio inseparabile astuccio, riprendo la strada di casa che dista pochi passi, sessantasei gradini da scalare per impossessarmi della meritata merenda. Entro in casa e vedo sul tavolo un libro molto grande con una copertina cartonata e, in sovraccoperta, un’immagine in bianco e nero: lo skyline dell’isola del santuario di Barbana che ben s’integra con il titolo: “El picolo nio” di Biagio Marin. Comincio immediatamente, a sfogliarlo con curiosità, per me è la prima volta che leggo poesie nel mio dialetto: è una folgorazione! Mi dimentico completamente della merenda. Dopo qualche ora mia madre, rientrando, mi trova stranamente tranquillo con il libro in mano e mi raccomanda di non rovinarlo, di averne cura poiché l’ha appena acquistato, la rassicuro senza staccare gli occhi dal libro. Quel giorno, dopo avere letto più volte le poesie, mi rendo conto che Biagio Marin è un grande poeta, e che si può poetare e raccontare la bellezza utilizzando l’antico dialetto paleoveneto della mia isola. La mia curiosità mi porta ad informarmi sul Poeta, scopro che Biagio Marin è un grande intellettuale. Il tempo scorre. Mi capita, talvolta, di osservare Marin dalla finestra della mia camera, agli squeri (piccoli cantieri navali) dove sono nato, mentre passeggia da solo con occhi bassi e mani unite dietro la schiena, in visita agli amici ” maestri d’ascia”, che lo accolgono sempre con la dovuta deferenza, anche se, confidenzialmente, a Lui si rivolgono chiamandolo “Biaseto”. Finalmente, alla fine degli anni settanta, da ventenne, riesco ad incontrarLo. Ricordo quel giorno come fosse oggi: mi avvio emozionatissimo verso casa Sua, con la consapevolezza di addentrarmi nel sacro luogo della Sua creazione poetica. Biagio, quasi novantenne, mi attende in piedi accanto alla Sua poltrona. Dopo le presentazioni, il Professore mi chiede delle mie origini gradesi. Inizia così, semplicemente, il nostro primo colloquio informale che si trasforma, poi, in una meravigliosa lezione di letteratura e filosofia, Il Professore, protagonista di una storia davvero unica, incanta con i Suoi monologhi, declamati con voce decisa, appassionata, a tratti, commossa.
“Semo una carne sola” è il sogno che si avvera, un sussurrato e rispettoso tributo alla persona che più di tutte ha influenzato la mia vita artistica. Ora, finalmente, con infinita gratitudine posso dire: “Grassie! Biaseto”.
Gianni Maran
Comments are closed, but trackbacks and pingbacks are open.